Giuliano Spina nato a Catania il 18/03/1989 laureato in Lettere moderne

mercoledì 30 novembre 2016

Il pomodoro di Pachino


Il pomodoro di Pachino è un prodotto ortofrutticolo italiano, corrispondente alla specie botanica Lycopersicum esculentum Mili, prodotto tra le province di Siracusa e Ragusa e ad Indicazione Geografica Protetta (IGP). Quest'ortaggio, noto in altre parti d'Italia col nome di pendolino, non è una specie appartenente all'agricoltura tradizionale dell'isola. Esso è stato introdotto nel 1989 dalla multinazionale sementiera israeliana HaZera Genetics, la quale l'aveva ottenuta attraverso selezione sostenuta da marcatori. L'area di coltivazione prevista dal disciplinare IGP prevede, oltre all'intero territorio comunale di Pachino e Portopalo di Capo Passero, i territori dei comuni di Noto e Ispica, quest'ultimo comune della provincia di Ragusa, e ricadenti entrambi nella parte sud-orientale dell'isola.
Le varietà di pomodoro tutelate dalla disciplinare sono quattro e ognuna di loro con proprietà e qualità diverse, ma accomunate da un elevato grado brix, una forte resistenza post raccolta, la quale le rende gustosissime a tavola, e un colore vivace e attraente. Il Ciliegino ha un aspetto, come dice il nome, a ciliegia, cresce su un grappolo a spina di pesce con frutti tondi e piccoli ed ha un colore rosso eccellente, il Costoluto, che è la varietà più antica, ha un colore verde scuro brillante, le coste marcate è prodotto tutto l'anno e conserva le migliori caratteristiche in terreni con salinità alta, il Tondo liscio, dal colore verde molto scuro e dal gusto marcato, e il Grappolo, che può essere sia verde che rosso, è tondo, liscio, ha un colore molto brillante, ha un colletto verde molto scuro ed ha un peso che varia a seconda della salinità del terreno.
     

martedì 18 ottobre 2016

Il limone di Siracusa


Il limone di Siracusa IGP è il frutto appartenente alla cultivar femminello siracusano ed ai suoi cloni, riferibili alla specie botanica Citrus limon. Il femminello siracusano è la cultivar più rappresentativa e produce tre fioritura: il primofiore (da ottobre a marzo), il bianchetto (da aprile a giugno) ed il verdello (da luglio a settembre). La pianta del limone ha origini in Birmania, dove si trova alla stato selvativo: da qui ha attraversato il Medio Oriente, la Mesopotamia , la Palestina, fino al Mediterraneo, dove ha trovato le condizioni ideali per il suo sviluppo. L'habitat naturale del limone risiede nella fascia compresa tra 48° parallelo a nord ed il 40° parallelo a sud: questa fascia include la California, l'Uruguay, l'Argentina, il Sudafrica e il bacino del Mediterraneo, in particolare l'Italia, la Spagna, la Grecia e la Turchia. Nel '500 e nel '600, durante il regime baronale monopolistico delle coltivazioni di agrumi, l'utilizzo dei limoni continuò a restare limitato nelle preparazione dei cibi di lusso. Iiniziò ad essere coltivato in maniera intensiva nel siracusano a partire dal XVII sec., grazie all'opera dei Padri Gesuiti, esperti coltivatori.A quel punto il limone divenne una delle principali fonti di sostentamento del territorio, raggiungendo nel 1891 una produzione di circa 11600 tonnellate. Il successo di questa coltivazione provocò la nascita, in Sicilia, di diverse aziende agrumarie, che estraevano l'agro-cotto, il citrato di calcio e l'acido citrico del succo. Negli stessi anni il limone di Siracusa conobbe una notevole fortuna sui mercati esteri, soprattutto nel Stati Uniti ed in Inghilterra. I dati riguardanti i movimenti del porto di Siracusa dei primo del '900 italiano indicano, come principali destinazioni estere di limoni, arance amare e dolci, agro di limone concentrato e citrato di calcio, i porti di Trieste, Londra, Fiume, Liverpool, Glasgow, Manchester, Malta ed Odessa. A dispetto dei fenomeni di urbanizzazione ed industrializzazione avvenuti a partire dal secondo dopoguerra, la coltura del limone è stata sempre valorizzata nel territorio aretuseo, e rappresenta una realtà economica molto importante. Siracusa è un punto di riferimento per il periodo fresco sia sul mercato italiano che su quelle europei ed il 3 febbraio 2011 il limone di Siracusa è stato iscritto nel registro delle Indicazioni Geografiche Protette IGP.
Il limone di Siracusa IGP è caratterizzato da un elevato contenuto in succo e dalla ricchezza di ghiandole oleifere nella buccia, oltre che per l'alta qualità degli oli essenziali. La varietà siracusana di limone è denominata femminello per via della notevole fertilità della pianta, rifiorente tutto l'anno: il primofiore natura da ottobre a marzo, ha forma ellittica, buccia e polpa di colore variabile da verde chiaro al giallo-citrino, e succo giallo-citrino; il bianchetto matura da aprile a giugno, si presenta ellittico-ovoidale, con buccia giallo chiaro, polpa gialle e succo giallo-citrino; il verdello matura tra luglio e settembre, ha forma ellittico-sferoidale e il colore della buccia verde chiaro, mentre il succo e la polpa sono giallo-citrino. Il sesto d'impianto dove avere una densità massima di 400-500 piante per ettaro e di 850 unità nel caso di sesti dinamici. Gli impianti possono essere condotti con metodo convenzionale, integrato oppure biologico. Tutte le operazioni colturali vanno eseguite in modo tale che si mantengano il giusto equilibrio e lo sviluppo della pianta, che deve sempre essere soggetta ad una corretta aerazione al sole. La raccolta dei frutti è manuale ed è effettuata direttamente dalla pianta, con l'ausilio dei forbicine per il taglio del peduncolo. Grazie alle sue caratteristiche qualitative, il limone di Siracusa è utilizzato anche in ambiti diversi dalla commercializzazione del frutto fresco. Viene utilizzato, per esempio, nel settore alimentare, in quello medico- scientifico, in quello cosmetico ed in quello profumiero, nei quali avviene l'approvigionamento di succhi ed oli essenziali attraverso le aziende di trasformazione.
L'attuale bacino di consumo del limone di Siracusa è prevalentemente rappresentato dal mercato italiano della Grande distribuzione organizzata, mentre l'ezport intra UE è diretto ai mercati di Germania, Austria, Francia, Regno Unito e Danimarca. Il principale mercato extra UE è la Norvegia. Il prodotto è immerso in commercio come Limone di Siracusa IGP: può essere commercializzato sfuso oppure confezionato in idonei contenitori di cartone, legno, plastica oppure in reti e borse con banda plastica attaccata alla rete. Le categorie commerciali sono esclusivamente la Extra e la Prima.
Il succo e la buccia del limone sono riconosciuti come pregiati e richiesti da aziende leader nel settore alimentare. Gli oli essenziali sono molto richiesti nel mondo della cosmesi e delle più importanti case profumiere del mondo. In campo medico, il limone di Siracusa è protagonista di uno studio clinico che dimostra l'efficacia del suo succo nella prevenzione dei calcoli renali nei soggetto predisposti alla forme recidivanti. Il citrato di potassio è l'unico farmaco in grado di ridurre la formazione di calcoli renali, impedendo la precipitazione dei cristalli di ossalato di calcio, responsabili della formazione dei calcoli. Ma questo farmaco crea disturbi al paziente e lo porta spesso ad abbandonare la cura. Il succo di tre o quattro limoni può fornire una quantità giornaliera di citrato paragonabile a quelle che si ottiene con la somministrazione del farmaco, col vantaggio di evitare gli effetti indesiderati di quest'ultimo. La città di Siracusa celebra ogni anno, il 13 dicembre la festività patronale di S.Lucia con una lunga processione da piazza Duomo in Ortigia alla chiesa di S.Lucia al Sepolcro. Otto giorni dopo, il 20 dicembre, la processione compie il percorso inverso. Il 13 i grossi ceri agli angoli della statua vengono ricoperti da trionfi di fiori, mentre il 20 il simulacro d'argento viene affiancato da ceri adornati da limoni ed arance. Il dono delle primizie alla Santa siracusana, oltre al valore estetico, aveva un suo significato, in quanto rappresentava il percorso della processione dalla campagna verso la città, quando l'area di piazza S.Lucia alla Borgata rappresentava il confine a nord dell'urbanizzazione, e all'isola di Ortigia era data la definizione di città. Il limone di Siracusa occupa il 42 %, 3500 ettari, della totale superficie italiana coltivata a limoni, 12464 ettari, 150000 tonnellate di prodotto e 398000 giornata lavorative annue. La zona di produzione comprende ben 10 comuni della provincia di Siracusa, ovvero Augusta, Avola, Melilli, Noto, Siracusa, Floridia, Priolo Gargallo, Rosolini e Sortino.
Il consorzio di Tutela del Limone di Siracusa IGP, attualmente presieduto da Fabio Moschella. è stato istituito il 13 luglio 2000, non ha scopi di lucro e non esercita attività commerciali. I suoi compiti principali sono quelli di individuare le zone di produzione e le varietà da sottoporre a tutela, svolgere attività di vigilanza nella zona di origine e sui mercati per la corretta denominazione IGP, realizzare iniziative e campagne promozionali in Italia e all'estero finalizzate alla diffusione della conoscenza del prodotto e del suo marchio IGP.












lunedì 3 ottobre 2016

L'antica polis siceliota di Eloro e la villa romana del Tellaro



Eloro, detta Eloros in greco ed Elorus in latino, è stata un'antica polis siceliota. Il suo centro oggi è un sito archeologico situato su una collina, a circa 20 metri sul livello del mare, dirimpetto al mar Ionio, a circa 8 chilometri a sud-est di Noto, nell'odierna provincia di Siracusa, poco a nord della foce del fiume Tellaro, allora chiamato Eloro come la città. Di questa particolare polis sappiamo poco fino al periodo romano. Quando fu scoperta, alla fine dell'VIII sec. a. C., si arrivò alla conclusione che essa fu la prima subcolonia di Siracusa. Essa fu posta nel punto in cui, anni dopo, fu costruita la via Elorina, menzionata più volte da Tucidide, la quale metteva in collegamento Eloro con il capoluogo aretuseo. Il documento più antico che menziona Eloro è di Pindaro in Nemee, IX, 40. Secondo Erodoto, nell'alto corso del fiume, Ippocrate, tiranno di Gela, sconfisse in battaglia nel 493 a. C. le forze siracusane. Non lontano da li i Siracusani sconfissero gli Ateniesi nella battaglia dell'Assinaro del 413 a. C. Nel 263 a. C., come ricorda Diodoro Siculo, insieme ad Akrai, Leontinoi, Megara Iblea, Netum e Tauromenium, Eloro fece parte dei possessi riconosciuti da Romani, impegnati nella Prima guerra punica, a Gerone II di Siracusa. Nel 214 a. C., come attestato da Tito Livio, Eloro, che era passata ai Cartaginesi, si consegnò a Claudio Marcello. Dalle Verrine di Cicerone ricaviamo che Gaio Verre privò totalmente la città delle sue opere d'arte e che sulla costa presso Eloro si svolse una battaglia navale che permise ai pirati di distruggere la flotta provinciale (71 a. C.). La città rimase fiorente anche in epoca bizantina per poi venire quasi del tutto distrutta con l'arrivo degli Arabi. Le mura urbane, datate da Paolo Orsi al V sec. a. C. ed in seguito attribuite al VI sec. a. C. nella loro fase originaria, furono ricostruite sopra i resti di quelle più antiche, forse nella seconda metà del IV sec. a. C. A sud-est una torre medievale detta Torre Stampace venne costruita nel 1353 da Blasco Alagona, agli ordini di Pietro d'Aragona, per la difesa della costa: la torre poggia sui resti di una fortezza, citata da Plinio il Vecchio. Il santuario più importante si trovava all'esterno delle mura, era dedicato a Demetra e Kore e riprende un più antico culto indigeno siculo. Si trovava all'esterno delle mura ed era costituito da diversi ambienti. Il primo impianto risale al VI sec. a. C., ma venne utilizzato fino al III sec. a. C, come testimoniano gli ex voto conservati nel Museo archeologico di Noto. In seguito il santuario venne trasferito all'interno della città come piccolo tempio in antis e circondato da un porticato, detto stoà, a tre bracci, dorico in facciata e a due navate. Il porticato era connesso anche con l'agorà, di sui restano visibili solo le cisterne scavate nella roccia per raccogliere l'acqua piovana. Dalla piazza una via si dirigeva verso il mare a sud-est: insieme ad un'altra via in senso nord-sud definiva gli assi della struttura urbanistica della città. Un santuario dedicato al dio Asclepio, del IV sec. a. C., era costituito da un cortile circondato da portici, dove gli ammalati sostavano e dormivano in attesa della visita in sogno del dio, che avrebbe portato alla guarigione. Nei pressi sorgeva un piccolo thesauròs, ossia un edificio a forma di piccolo tempio in antis, destinato ad ospitare le offerte votive e datato alla seconda metà del IV sec. Verso sud, sulle pendici della collina, si trova un teatro greco, in parte scavato nella roccia ed in parte costruito, risalente alla fine del IV sec.-inizi III sec. a. C., in parte intaccato da un canale di bonifica realizzato negli anni '30. A nord-ovest si trovava la Colonna Pizzuta, un monumento funerario, costituito da una colossale colonna in rocchi di pietra calcarea, con un diametro di 3,80 metri ed un'altezza ricostruibile in circa 10 metri. Nei rpessi si trova un ipogeo scavato nella roccia, databile alla seconda metà del III sec. a. C., già visto negli scavi di Orsi del 1899 ed in seguito reinterrato. Le quattro necropoli, distinte dagli studiosi con le prime quattro lettere dell'alfabeto, erano situate sul terrazzo roccioso a nord dell'abitato.Il sito confina con la Riserva naturale di Vendicari, dove è possibile vedere tracce dell'antica via Elorina proveniente da Siracusa.


Vicino ai resti di questa polis si trova la Villa romana del Tellaro, riscoperta nel 1971 su una bassa elevazione presso il fiume e sotto una masseria sette-ottocentesca. Il corpo centrale della villa si articola intorno ad un grande peristilio. Il tratto del portico sul lato settentrionale presentava una pavimentazione a mosaico con festoni d'alloro che formano cerchi ed ottagoni con i lati inflessi includenti motivi geometrici e floreali e su di esso si affacciano altri due ambienti che conservano i mosaici figurati. Nel primo di questi ambienti il mosaico, molto danneggiato, conserva un pannello con la scena del riscatto del corpo di Ettore. Qui Ulisse, Achille e Diomede, identificati con iscrizioni in greco, son impegnati nella pesatura del cadavere dell'eroe. La figura di Priamo è perduta, il corpo di Ettore, frammentario, si trovava su un piatto della bilancia e l'oro del riscatto era nell'altro piatto. Quest'episodio, non ricordato nell'Iliade di Omero, deriva da una tragedia di Eschilo. Il pavimento musivo del secondo ambiente presenta una scena di caccia, con un banchetto all'aria aperta tra gli alberi ed una figura femminile interpretata come personificazione dell'Africa. I mosaici sono opera di maestranze africane e vennero realizzati dopo la metà del IV sec. a. C. Il 15 marzo del 2008, dopo 30 anni dagli scavi e dopo lavori di ristrutturazione, la villa è stata inaugurata e resa fruibile al pubblico. Alle spalle di essa si trovano i vigneti nei quali si coltivano le uve che danno vita ad alcuni dei vini più conosciuti dell'isola, ovvero il Nero d'Avola, il Moscato e l'Albanella.










sabato 1 ottobre 2016

Il fiume Dirillo ed il suo suggestivo invaso artificiale


Il fiume Dirillo, o Acate, è un fiume, sito in Sicilia, che nasce dalla confluenza dei torrenti Vizzini ed Amerillo tra i due rilievi Monte Casasia a sud e Poggio Vascello a nord ed attraversa i comuni di Licodia Eubea e Mazzarrone, in provincia di Catania, fino a giungere in mare dalle terre del Ragusano per una lunghezza complessiva di circa 40 chilometri. Nel territorio comprese tra i comuni di Licodia Eubea, Vizzini, in provincia di Catania, e Monterosso Almo, in provincia di Ragusa, nel 1961 fu formato uno sbarramento attraverso la costruzione della diga Ragoleto ed ebbe origine così un invaso artificiale chiamato Lago di Dirllo. Esso è raggiungibile tramite la Strada Statale 194 Catania-Ragusa nello svincolo per Licodia Eubea o in contrada Torretta all'interno del comune di Vizzini. Il bacino, attualmente della capacità di 20 milioni di metri cubi, è attrezzato come zona turistica la quale consente, oltre alla pesca sportiva, l'attività di canottaggio, e si trova in paesaggio ricco di verde che da, a primo impatto, l'impressione di non trovarsi al centro della Sicilia. Le specie ittiche lacustri presenti al suo interno sono il luccio, la trota, la carpa ed il pesce persico. Tempo addietro fu pescato, sulla riva vizzinese del lago, un luccio di 7 chilogrammi, e per fare ciò servì all'incirca un quarto d'ora. Prima dello sbarramento che formò l'invaso lungo il fiume si trovavano anche le tinche e le anguille le quali adesso sono molto più rare.
 

venerdì 30 settembre 2016

La pasta con le sarde


La pasta con le sarde, detta pasta chi sardi nella zona occidentale della Sicilia e pasta cche saddi in quella orientale, è un piatto tipico della cucina siciliana, palermitana in particolare, inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. La storia di questo splendido piatto affonda le proprie radici al IX sec. d. C., periodo compreso tra la dominazione bizantina e quella araba, come testimoniato dall'utilizzo delle spezie. Il comandante Eufemio da Messina, da sempre ostile alla dominazione bizantina, decise di guidare alcuni ribelli, nel tentativo di scacciare gli invasori, ma viene catturato ed in seguito cacciato via con l'accusa di essersi innamorato di una suora e di aver cercato di convincerla ad abbandonare i voti. Ma ciò in realtà sembrò un pretesto e così Eufemio trovò riparo in Africa e mosso da spirito di vendetta si allea con i Saraceni e guidò le loro flotte alla conquista della Sicilia. A questo punto entrò in scena un cuoco, di nome ignoto, e contemporaneamente la flotta sbarcò a Mazara del Vallo. Dovendo sfamare i soldati affamati il cuoco utilizzò, insieme allo zafferano arabo della sua flotta, la pasta, il finocchietto e le sarde, e così né venuto fuori questo primo piatto gustosissimo tra i migliori della tradizione culinaria sicula, il quale attualmente a Palermo è uno dei piatti tipici della festa di S.Giuseppe. In origine era un piatto stagionale, primaverile ed estivo per l'esattezza, in quanto in quanto nel periodo tra Marzo e Settembre si trovano le sarde fresche nei mercati e si possono raccogliere i finocchietti selvatici nei campi. La sarda ed il finocchietto selvatico sono quindi gli ingredienti principali di questo primo piatto. La sarda è un pesce azzurro diffuso in tutto il Mediterraneo appartenente alla stessa famiglia delle alici e delle acciughe, delle quali le prime spesso la sostituiscono in alcune varianti, ma a differenza di esse è più grassa e viene cucinata entro le otto ore dalla pesca per non farle perdere il sapore. Le sarde cucinate per questo piatto devono essere fresche e non devono mai essere sostituite con altre sottolio. Vengono quindi nettate e sfilettate, eliminando la testa, la coda e la lisca, poi lavate e asciugate tra due panni puliti. I tipi di pasta indicati sono tre e tutti di semola di grano duro: i bucatini, i maccheroni ed i mezzani. Le parti del finocchietto utilizzate sono quelle tenere e verdi, ovvero i germogli, i rametti più giovani e le tipiche foglie piumose. Nella ricetta classica si trovano anche le cipolle, le acciughe salate, l'uva passa, i pinoli, lo zafferano, l'olio, il sale ed il pepe. Quando si prepara per tre o quattro persone le dosi sono di 500 g di sarde fresche, altrettanti di bucatini e finocchietti selvatici, due cipolle medie o una grossa, tre acciughe salate, 50 g di uva passa ed altrettanti di pinoli, una bustina di zafferano, olio, sale e pepe. Si lessano per una ventina di minuti i finocchietti in acqua salata, circa 4 litri per 500 g, si scolano e si tritano. Poi si tiene l'acqua ed in un tegame si scottano le sarde in un dl d'olio extravergine d'oliva circa un minuto per lato, si scolano e si riservano. Si mettono a soffriggere nelle stesso tegame le cipolle finemente affettate fino a leggerissima coloritura e si uniscono i finocchietti, le sarde, l'uva passa, rinvenuta in acqua tiepida, i pinoli, il sale ed il pepe. La cottura avviene a fuoco basso durante la mescola per amalgamare la salsa. Dopo una ventina di minuti si uniscono le acciughe dissalate, lavate, asciugate e sciolte in un tegamino con un cucchiaio d'olio caldo. Si cuoce nuovamente per quindici minuti sempre mescolando e si unisce un bustina di zafferano in un cucchiaino con l'acqua di cottura dei finocchietti. Infine si mette a cuocere la pasta, si scola al dente e si unisce la condimento. Prima di servirla si lascia riposare per qualche minuto.
Esistono diverse varianti e tra di esse quella messinese, nella quale non si utilizza lo zafferano. Quelle principali sono quella della zona palermitana in bianco senza aggiunta di pomodoro e quella della zona agrigentina nella quale è invece previsto il concentrato di pomodoro durante la fase di preparazione. All'interno sia della cucina familiare che in quella dei grandi chef si sono sviluppate altre varianti. Tra queste spiccano quella con gli scalogni ed uno spicchio d'aglio al posto delle cipolle, un bicchiere di vino che bagna il soffritto le sardine dissalate al posto delle acciughe dissalate. Un'altra unisce solo metà delle sarde al soffritto di cipolla, scola la pasta al dente, la mescola al condimento, la passa in un tegame da forno e la ricopre con l'altra metà delle sarde rosolate in un secondo tegame nella loro salsa. Infine cosparge la superficie con mandorle tritate ed inforna la teglia per circa dieci minuti. La preparazione talvolta avviene a calore moderato. Un'ultima variante si chiama alla milanisa e prevede di versare 3 dl di salsa di pomodoro una volta che tutti gli altri ingredienti sono stati uniti nel tegame. La cottura prosegue per trenta minuti circa a fuoco lento. La pasta, una volta scolata, si condisce col sugo e si cosparge con pangrattato, altro elemento fondamentale in tutte le varianti, tostato in padella con due cucchiai d'olio. In alcuni punti ristoro dell'isola è possibile trovare l'arancino di riso con il condimento chiamato condisarde mescolato ad un gustosissimo formaggio filante il che rende il prodotto piacevolmente masticabile e friabile. 










 

domenica 25 settembre 2016

Il cioccolato di Modica


Il cioccolato di Modica o cioccolato modicano (in dialetto ciucculata muricana) nasce da un tipo di lavorazione a freddo del cioccolato che esclude la fase del concaggio. Alcune fonti riportano che durante dominazione spagnola in Sicilia, esattamente nel 1519, tale lavorazione fu introdotta nella Contea di Modica, il più importante stato feudale del sud Italia nel periodo e dotato di autonomia amministrativa. Gli spagnoli, a loro volta, la importarono dagli Aztechi, civiltà nella quale il cacao ricopriva un importante ruolo di sostegno economico, e di tutto ciò né è una riprova la lavorazione nelle comunità indigene del Messico e del Guatemala ed in Spagna, in quest'ultimo luogo chiamata el chocolate a la piedra. L'origine mitica di questo cioccolato era collegata a Quetzalcolat, il dio del cioccolato che scese sulla terra e portò con se dal paradiso una pianta di cacao che coltivava nel suo giardino sacro e la quale in seguito regalò agli abitanti del luogo. Leonardo Sciascia ci ha ricordato come tale lavorazione rimanesse ai suoi tempi nella città di Alicante e come in origine esistevano solamente le due tipologie aromatizzate con vaniglia e cannella, alle quali in seguito si aggiunse quella aromatizzata con pepe rosso. Storicamente esso è stato tramandato come dolce tipico delle famiglie nobili che durante le feste e le occasioni importanti lo preparavano in casa. In questo preciso modo è arrivato fino ai giorni nostri e solamente in seguito si è affermato a livello internazionale. La massa di cacao, ottenuta dai semi tostati e macinati provenienti da Sao Tomè, piccolo stato africano, e detta in dialetto caracca, e non privata del burro di cacao in essa contenuta, viene riscaldata per renderla fluida. Ad una temperatura non superiore ai 40 °C viene mescolata a zucchero semolato di canna, e spezie come cannella, vaniglia, zenzero o peperoncino, oppure con scorze di limone o arancia. Il cioccolato rimane comunque con elevate percentuali di massa di cacao, minimo 65 % nelle versioni classiche fino ad arrivare al 90 % nelle gustosissime versioni pure. Nella lavorazione a mano la massa veniva disposta su uno spianatoio a mezzaluna, chiamato sempre in dialetto la valata ra ciucculata, costruito in pietra lavica e riscaldato, e poi veniva amalgamata con il pistuni, speciale mattarello cilindrico di pietra di diverso peso e spessore in rapporto alle fasi di lavorazione e cioè la prima, la seconda e la terza passata, fino alla raffinazione che in dialetto si chiamava stricata. Oggi nei laboratori queste fasi di lavorazione sono fatte da più moderne temperatrici. Il composto viene sempre mantenuto ad una temperatura massima di 35-40 °C che non fa sciogliere i cristalli di zucchero i quali rimangono integri all'interno della pasta. Ancora pastoso, viene versato in apposite lanni, formelle di latta a forma rettangolare che vengono battute sia perché abbia, una volta solidificato e freddo, la forma del suo contenitore sia per far venire in superficie eventuali bolle di aria e rendere il prodotto compatto. La barretta di cioccolato ottenuta è lucida con delle scanalature, a volte più opaca, ha una colore nero con riflessi bruni, una consistenza granulosa ed un pò grezza. La forza e l'unicità di questo prodotto consistono nella semplicità della lavorazione, nella masticazione granulosa e friabile grazie sia alla mancanza della fase di concaggio che allo zucchero che si presenta in cristalli, e nell'assenza di sostanze estranee, in virtù del fatto che non venne introdotta la lavorazione industriale nella Contea di Modica. Attualmente in alcuni bar della Sicilia orientale viene prodotto il gelato al gusto del cioccolato di Modica, ciò a conferma della graduale ma potente espansione di questo gustosissimo prodotto. Nel 2003 è nato il Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica che riunisce venti produttori della città alla scopo di stabilire un disciplinare di produzione ed ottenere il riconoscimento IGP (Indicazione Geografica Protetta), mentre al momento il prodotto è stato inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali. Dal 2005 al 2008 la città ha ospitato la manifestazione Eurochocolate, mentre dal 2009 questa manifestazione è stata sostituita da Chocobarocco.







    

sabato 24 settembre 2016

Il confronto tra culture e religioni e la crisi della carta stampata al Seminario di aggiornamento Raccontare l'accoglienza









Venerdì 23 settembre 2016, nell'ambito del XXV Seminario di aggiornamento "Raccontare l'accoglienza", all'Hotel Eloro di Marina di Noto la mattina ed al Seminario Arcivescovile di Noto nel pomeriggio, si è parlato dei temi del confronto tra culture e religioni, con un occhio di riguardo al problema dell'immigrazione, e della crisi della carta stampata a favore delle nuove forme di comunicazione multimediale. Nel primo incontro, quello mattutino introdotto e condotto da Rachele Gerace, giornalista de La scintilla di Messina, con l'avvocato Sofia Amoddio si è trattato il tema del fenomeno migratorio in Italia affrontando le ragioni storiche di esso, le quali hanno visto nel porto di Augusta il primo porto più importante dello sbarco, seguito da Pozzallo, Lampedusa e Siracusa. Un cambiamento di non poco conto si è registrato negli ultimi due anni, in quanto fino a due anni fa la maggior parte dei migranti proveniva dalla Siria, mentre adesso provengono dall'Eritrea e dalla Somalia, e tutto questo rinforza l'enunciato secondo il quale noi siciliani siamo una mistura di popoli. Attualmente la maggior parte delle richieste d'asilo è in Svezia e in Germania. La parola è poi passata al direttore, il dottor Giuseppe Malandrino, il quale ha iniziato la sua trattazione partendo dal dualismo disoccupazione-migranti, il quale spesso porta ad una forma di razzismo da parte di noi italiani, ed è poi passato a parlare della diseguaglianza nel mondo che porta ad una sorta di "anormalità" delle condizioni dei paesi del terzo mondo, alla quale si aggiunge anche lo sfruttamento di essi. Ha concluso affermando che dai paesi in guerra fuggono 140000 migranti e parlando della dicotomia tra il comportamento cristiano e quello economico da parte nostra nei confronti del migrante. Il professore Luciano Nicastro, docente di Sociologia della Comunicazione alla LUMSA di Caltanissetta, ha parlato del concetto di utopia minimalista enunciato da Luigi Zoia, il quale porta spesso noi italiani ad aiutare il prossimo con il minimo. Padre Giovanni Treglia, missionario in Tanzania, ha iniziato parlando dello studio della lingua del paese, nella quale il verbo avere non ha l'accezione di possesso che ha nella nostra lingua, e ha poi proseguito affermando il concetto che la vita conta più ogni altra cosa, indipendentemente da dove siamo, e puntualizzando che la coltivazione dei prodotti di cui noi ci nutriamo si pratica nei paesi poveri. Padre Vittorio Bonfanti, missionario in Malì e studioso della cultura bambara, ha parlato del fatto che spesso i Musulmani vengono erroneamente identificati con il terrorismo, mentre in Malì Cristiani e Musulmani hanno dialogo e ha concluso parlando del processo di evangelizzazione umana e della ricerca, nella vita, del dialogo con lo straniero con coraggio. Suora Giovanna Minardi del PIME e missionaria in Oriente ha parlato del suo viaggio ad Hong Kong, dove sono presenti 52 parrocchie nella quali i cattolici vivono con genti delle altre religioni, grazie ad un lavoro molto forte di integrazione, puntualizzando in seguito che li non si parla il cinese mandarino, ma il cantonese, e ha concluso sempre con il concetto di evangelizzazione affermando l'importanza del battesimo e raccontando l'opera di Padre Gianni Criveller, missionario anch'egli del PIME ed espulso cinque anni fa dalla Cina. Infine Suor Rachel Soria, missionaria in Kenya, ha parlato di come li i ragazzi dormono vicino alle condutture fognarie, mangiamo i rifiuti e poi finiscono in brutti giri. In Kenya i carcerati vengono considerati figli di Dio in quanto sono più grandi del male che hanno compiuto.





Nell'incontro del pomeriggio al Seminario Arcivescovile di Noto, introdotto e condotto da Giuseppe Vecchio, giornalista e delegato regionale FISC, si è tratta il tema dell'avvento delle nuove forme di comunicazione multimediale. Monsignor Raspanti, arcivescovo di Acireale, ha esordito affermando che il primo cambiamento in questa direzione è avvenuto con la digitalizzazione dei dati e con la nascita e veloce crescita dei social network, i quali hanno bisogno di possedere più dati possibili. Ha fatto anche l'esempio di come la NASA manda uomini in ogni angolo dell'universo, i quali devono elaborare tanti dati in meno di un secondo. Ha anche puntualizzando l'esigenza di saper intercettare le notizie e i dati ed avvertirne sia vantaggi che disagi. La parola è poi passata a Domenico Ciancio, condirettore del quotidiano La Sicilia, il quale ha parlato della crisi dei quotidiani, ma anche della speranza di una ripresa. Ha trattato anche il tema dell'anonimato della rete, la quale deve essere giustamente utilizzata solo per i doveri e nella quale i dati devono essere utilizzati meglio, anche al fine di ottenere una veridicità delle informazioni che vengono veicolate. A questo scopo deve concorrere una lavoro sui progetti di comunicazione.