Giuliano Spina nato a Catania il 18/03/1989 laureato in Lettere moderne

venerdì 30 settembre 2016

La pasta con le sarde


La pasta con le sarde, detta pasta chi sardi nella zona occidentale della Sicilia e pasta cche saddi in quella orientale, è un piatto tipico della cucina siciliana, palermitana in particolare, inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. La storia di questo splendido piatto affonda le proprie radici al IX sec. d. C., periodo compreso tra la dominazione bizantina e quella araba, come testimoniato dall'utilizzo delle spezie. Il comandante Eufemio da Messina, da sempre ostile alla dominazione bizantina, decise di guidare alcuni ribelli, nel tentativo di scacciare gli invasori, ma viene catturato ed in seguito cacciato via con l'accusa di essersi innamorato di una suora e di aver cercato di convincerla ad abbandonare i voti. Ma ciò in realtà sembrò un pretesto e così Eufemio trovò riparo in Africa e mosso da spirito di vendetta si allea con i Saraceni e guidò le loro flotte alla conquista della Sicilia. A questo punto entrò in scena un cuoco, di nome ignoto, e contemporaneamente la flotta sbarcò a Mazara del Vallo. Dovendo sfamare i soldati affamati il cuoco utilizzò, insieme allo zafferano arabo della sua flotta, la pasta, il finocchietto e le sarde, e così né venuto fuori questo primo piatto gustosissimo tra i migliori della tradizione culinaria sicula, il quale attualmente a Palermo è uno dei piatti tipici della festa di S.Giuseppe. In origine era un piatto stagionale, primaverile ed estivo per l'esattezza, in quanto in quanto nel periodo tra Marzo e Settembre si trovano le sarde fresche nei mercati e si possono raccogliere i finocchietti selvatici nei campi. La sarda ed il finocchietto selvatico sono quindi gli ingredienti principali di questo primo piatto. La sarda è un pesce azzurro diffuso in tutto il Mediterraneo appartenente alla stessa famiglia delle alici e delle acciughe, delle quali le prime spesso la sostituiscono in alcune varianti, ma a differenza di esse è più grassa e viene cucinata entro le otto ore dalla pesca per non farle perdere il sapore. Le sarde cucinate per questo piatto devono essere fresche e non devono mai essere sostituite con altre sottolio. Vengono quindi nettate e sfilettate, eliminando la testa, la coda e la lisca, poi lavate e asciugate tra due panni puliti. I tipi di pasta indicati sono tre e tutti di semola di grano duro: i bucatini, i maccheroni ed i mezzani. Le parti del finocchietto utilizzate sono quelle tenere e verdi, ovvero i germogli, i rametti più giovani e le tipiche foglie piumose. Nella ricetta classica si trovano anche le cipolle, le acciughe salate, l'uva passa, i pinoli, lo zafferano, l'olio, il sale ed il pepe. Quando si prepara per tre o quattro persone le dosi sono di 500 g di sarde fresche, altrettanti di bucatini e finocchietti selvatici, due cipolle medie o una grossa, tre acciughe salate, 50 g di uva passa ed altrettanti di pinoli, una bustina di zafferano, olio, sale e pepe. Si lessano per una ventina di minuti i finocchietti in acqua salata, circa 4 litri per 500 g, si scolano e si tritano. Poi si tiene l'acqua ed in un tegame si scottano le sarde in un dl d'olio extravergine d'oliva circa un minuto per lato, si scolano e si riservano. Si mettono a soffriggere nelle stesso tegame le cipolle finemente affettate fino a leggerissima coloritura e si uniscono i finocchietti, le sarde, l'uva passa, rinvenuta in acqua tiepida, i pinoli, il sale ed il pepe. La cottura avviene a fuoco basso durante la mescola per amalgamare la salsa. Dopo una ventina di minuti si uniscono le acciughe dissalate, lavate, asciugate e sciolte in un tegamino con un cucchiaio d'olio caldo. Si cuoce nuovamente per quindici minuti sempre mescolando e si unisce un bustina di zafferano in un cucchiaino con l'acqua di cottura dei finocchietti. Infine si mette a cuocere la pasta, si scola al dente e si unisce la condimento. Prima di servirla si lascia riposare per qualche minuto.
Esistono diverse varianti e tra di esse quella messinese, nella quale non si utilizza lo zafferano. Quelle principali sono quella della zona palermitana in bianco senza aggiunta di pomodoro e quella della zona agrigentina nella quale è invece previsto il concentrato di pomodoro durante la fase di preparazione. All'interno sia della cucina familiare che in quella dei grandi chef si sono sviluppate altre varianti. Tra queste spiccano quella con gli scalogni ed uno spicchio d'aglio al posto delle cipolle, un bicchiere di vino che bagna il soffritto le sardine dissalate al posto delle acciughe dissalate. Un'altra unisce solo metà delle sarde al soffritto di cipolla, scola la pasta al dente, la mescola al condimento, la passa in un tegame da forno e la ricopre con l'altra metà delle sarde rosolate in un secondo tegame nella loro salsa. Infine cosparge la superficie con mandorle tritate ed inforna la teglia per circa dieci minuti. La preparazione talvolta avviene a calore moderato. Un'ultima variante si chiama alla milanisa e prevede di versare 3 dl di salsa di pomodoro una volta che tutti gli altri ingredienti sono stati uniti nel tegame. La cottura prosegue per trenta minuti circa a fuoco lento. La pasta, una volta scolata, si condisce col sugo e si cosparge con pangrattato, altro elemento fondamentale in tutte le varianti, tostato in padella con due cucchiai d'olio. In alcuni punti ristoro dell'isola è possibile trovare l'arancino di riso con il condimento chiamato condisarde mescolato ad un gustosissimo formaggio filante il che rende il prodotto piacevolmente masticabile e friabile. 










 

domenica 25 settembre 2016

Il cioccolato di Modica


Il cioccolato di Modica o cioccolato modicano (in dialetto ciucculata muricana) nasce da un tipo di lavorazione a freddo del cioccolato che esclude la fase del concaggio. Alcune fonti riportano che durante dominazione spagnola in Sicilia, esattamente nel 1519, tale lavorazione fu introdotta nella Contea di Modica, il più importante stato feudale del sud Italia nel periodo e dotato di autonomia amministrativa. Gli spagnoli, a loro volta, la importarono dagli Aztechi, civiltà nella quale il cacao ricopriva un importante ruolo di sostegno economico, e di tutto ciò né è una riprova la lavorazione nelle comunità indigene del Messico e del Guatemala ed in Spagna, in quest'ultimo luogo chiamata el chocolate a la piedra. L'origine mitica di questo cioccolato era collegata a Quetzalcolat, il dio del cioccolato che scese sulla terra e portò con se dal paradiso una pianta di cacao che coltivava nel suo giardino sacro e la quale in seguito regalò agli abitanti del luogo. Leonardo Sciascia ci ha ricordato come tale lavorazione rimanesse ai suoi tempi nella città di Alicante e come in origine esistevano solamente le due tipologie aromatizzate con vaniglia e cannella, alle quali in seguito si aggiunse quella aromatizzata con pepe rosso. Storicamente esso è stato tramandato come dolce tipico delle famiglie nobili che durante le feste e le occasioni importanti lo preparavano in casa. In questo preciso modo è arrivato fino ai giorni nostri e solamente in seguito si è affermato a livello internazionale. La massa di cacao, ottenuta dai semi tostati e macinati provenienti da Sao Tomè, piccolo stato africano, e detta in dialetto caracca, e non privata del burro di cacao in essa contenuta, viene riscaldata per renderla fluida. Ad una temperatura non superiore ai 40 °C viene mescolata a zucchero semolato di canna, e spezie come cannella, vaniglia, zenzero o peperoncino, oppure con scorze di limone o arancia. Il cioccolato rimane comunque con elevate percentuali di massa di cacao, minimo 65 % nelle versioni classiche fino ad arrivare al 90 % nelle gustosissime versioni pure. Nella lavorazione a mano la massa veniva disposta su uno spianatoio a mezzaluna, chiamato sempre in dialetto la valata ra ciucculata, costruito in pietra lavica e riscaldato, e poi veniva amalgamata con il pistuni, speciale mattarello cilindrico di pietra di diverso peso e spessore in rapporto alle fasi di lavorazione e cioè la prima, la seconda e la terza passata, fino alla raffinazione che in dialetto si chiamava stricata. Oggi nei laboratori queste fasi di lavorazione sono fatte da più moderne temperatrici. Il composto viene sempre mantenuto ad una temperatura massima di 35-40 °C che non fa sciogliere i cristalli di zucchero i quali rimangono integri all'interno della pasta. Ancora pastoso, viene versato in apposite lanni, formelle di latta a forma rettangolare che vengono battute sia perché abbia, una volta solidificato e freddo, la forma del suo contenitore sia per far venire in superficie eventuali bolle di aria e rendere il prodotto compatto. La barretta di cioccolato ottenuta è lucida con delle scanalature, a volte più opaca, ha una colore nero con riflessi bruni, una consistenza granulosa ed un pò grezza. La forza e l'unicità di questo prodotto consistono nella semplicità della lavorazione, nella masticazione granulosa e friabile grazie sia alla mancanza della fase di concaggio che allo zucchero che si presenta in cristalli, e nell'assenza di sostanze estranee, in virtù del fatto che non venne introdotta la lavorazione industriale nella Contea di Modica. Attualmente in alcuni bar della Sicilia orientale viene prodotto il gelato al gusto del cioccolato di Modica, ciò a conferma della graduale ma potente espansione di questo gustosissimo prodotto. Nel 2003 è nato il Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica che riunisce venti produttori della città alla scopo di stabilire un disciplinare di produzione ed ottenere il riconoscimento IGP (Indicazione Geografica Protetta), mentre al momento il prodotto è stato inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali. Dal 2005 al 2008 la città ha ospitato la manifestazione Eurochocolate, mentre dal 2009 questa manifestazione è stata sostituita da Chocobarocco.







    

sabato 24 settembre 2016

Il confronto tra culture e religioni e la crisi della carta stampata al Seminario di aggiornamento Raccontare l'accoglienza









Venerdì 23 settembre 2016, nell'ambito del XXV Seminario di aggiornamento "Raccontare l'accoglienza", all'Hotel Eloro di Marina di Noto la mattina ed al Seminario Arcivescovile di Noto nel pomeriggio, si è parlato dei temi del confronto tra culture e religioni, con un occhio di riguardo al problema dell'immigrazione, e della crisi della carta stampata a favore delle nuove forme di comunicazione multimediale. Nel primo incontro, quello mattutino introdotto e condotto da Rachele Gerace, giornalista de La scintilla di Messina, con l'avvocato Sofia Amoddio si è trattato il tema del fenomeno migratorio in Italia affrontando le ragioni storiche di esso, le quali hanno visto nel porto di Augusta il primo porto più importante dello sbarco, seguito da Pozzallo, Lampedusa e Siracusa. Un cambiamento di non poco conto si è registrato negli ultimi due anni, in quanto fino a due anni fa la maggior parte dei migranti proveniva dalla Siria, mentre adesso provengono dall'Eritrea e dalla Somalia, e tutto questo rinforza l'enunciato secondo il quale noi siciliani siamo una mistura di popoli. Attualmente la maggior parte delle richieste d'asilo è in Svezia e in Germania. La parola è poi passata al direttore, il dottor Giuseppe Malandrino, il quale ha iniziato la sua trattazione partendo dal dualismo disoccupazione-migranti, il quale spesso porta ad una forma di razzismo da parte di noi italiani, ed è poi passato a parlare della diseguaglianza nel mondo che porta ad una sorta di "anormalità" delle condizioni dei paesi del terzo mondo, alla quale si aggiunge anche lo sfruttamento di essi. Ha concluso affermando che dai paesi in guerra fuggono 140000 migranti e parlando della dicotomia tra il comportamento cristiano e quello economico da parte nostra nei confronti del migrante. Il professore Luciano Nicastro, docente di Sociologia della Comunicazione alla LUMSA di Caltanissetta, ha parlato del concetto di utopia minimalista enunciato da Luigi Zoia, il quale porta spesso noi italiani ad aiutare il prossimo con il minimo. Padre Giovanni Treglia, missionario in Tanzania, ha iniziato parlando dello studio della lingua del paese, nella quale il verbo avere non ha l'accezione di possesso che ha nella nostra lingua, e ha poi proseguito affermando il concetto che la vita conta più ogni altra cosa, indipendentemente da dove siamo, e puntualizzando che la coltivazione dei prodotti di cui noi ci nutriamo si pratica nei paesi poveri. Padre Vittorio Bonfanti, missionario in Malì e studioso della cultura bambara, ha parlato del fatto che spesso i Musulmani vengono erroneamente identificati con il terrorismo, mentre in Malì Cristiani e Musulmani hanno dialogo e ha concluso parlando del processo di evangelizzazione umana e della ricerca, nella vita, del dialogo con lo straniero con coraggio. Suora Giovanna Minardi del PIME e missionaria in Oriente ha parlato del suo viaggio ad Hong Kong, dove sono presenti 52 parrocchie nella quali i cattolici vivono con genti delle altre religioni, grazie ad un lavoro molto forte di integrazione, puntualizzando in seguito che li non si parla il cinese mandarino, ma il cantonese, e ha concluso sempre con il concetto di evangelizzazione affermando l'importanza del battesimo e raccontando l'opera di Padre Gianni Criveller, missionario anch'egli del PIME ed espulso cinque anni fa dalla Cina. Infine Suor Rachel Soria, missionaria in Kenya, ha parlato di come li i ragazzi dormono vicino alle condutture fognarie, mangiamo i rifiuti e poi finiscono in brutti giri. In Kenya i carcerati vengono considerati figli di Dio in quanto sono più grandi del male che hanno compiuto.





Nell'incontro del pomeriggio al Seminario Arcivescovile di Noto, introdotto e condotto da Giuseppe Vecchio, giornalista e delegato regionale FISC, si è tratta il tema dell'avvento delle nuove forme di comunicazione multimediale. Monsignor Raspanti, arcivescovo di Acireale, ha esordito affermando che il primo cambiamento in questa direzione è avvenuto con la digitalizzazione dei dati e con la nascita e veloce crescita dei social network, i quali hanno bisogno di possedere più dati possibili. Ha fatto anche l'esempio di come la NASA manda uomini in ogni angolo dell'universo, i quali devono elaborare tanti dati in meno di un secondo. Ha anche puntualizzando l'esigenza di saper intercettare le notizie e i dati ed avvertirne sia vantaggi che disagi. La parola è poi passata a Domenico Ciancio, condirettore del quotidiano La Sicilia, il quale ha parlato della crisi dei quotidiani, ma anche della speranza di una ripresa. Ha trattato anche il tema dell'anonimato della rete, la quale deve essere giustamente utilizzata solo per i doveri e nella quale i dati devono essere utilizzati meglio, anche al fine di ottenere una veridicità delle informazioni che vengono veicolate. A questo scopo deve concorrere una lavoro sui progetti di comunicazione.











lunedì 19 settembre 2016

Francesco Maurolico


Francesco Maurolico, detto Francesco da Messina, nato a Messina il 16 settembre 1494 e morto sempre a Messina il 22 luglio 1575, è stato un matematico, astronomo e storico italiano. La famiglia era di origine greca, emigrò in Sicilia già nel periodo del Vespro, esercitava la mercatura e ricopriva incarichi pubblici collocandosi a livello medio alto nella gerarchia sociale dei ceti dirigenti locali. Il cognome del padre era Mauroli ed il suo costituisce una inventio di foggia umanistica adottata da lui stesso con riferimento al nome di Lycos, storico e poeta siciliano del III sec. a. C.. La madre era imparentata con la famiglia degli Spadafora del ramo di Venetico la quale, nel XV sec., ottenne l'iscrizione nei ruoli della nobiltà veneziana e detenne per lungo tempo a Messina l'ufficio di console della Repubblica. Nel 1521 fu ordinato prete e nel 1550 divenne monaco benedettino presso il monastero di .Maria del Parto a Castelbuono. Due anni dopo fu consacrato abate nella cattedrale di S.Nicolò di Messina. Le sue scoperte più importanti furono il principio di induzione matematica, i metodi di misurazione della Terra, osservazioni astronomiche come la supernova apparsa nella costellazione di Cassiopea, fornì carte geografiche alla flotta cristiana in partenza dal porto di Messina per la Battaglia di Lepanto, collaborò con lo scultore Giovanni Angelo Montorsoli nella realizzazione di due delle belle fontane monumentali del '500, quella di Orione e quella del Nettuno, fornendo i distici latini incisi sulle fontane. Vasta fu inoltre la sua ricerca in molte discipline scientifiche e corposa fu la sua opera manoscritta insieme alle pubblicazioni a stampa. Uno dei più antichi crateri degli altipiani meridionali della Luna, il cratere Maurolycus dal diametro di circa 114 chilometri, è stato così denominato in suo onore dall'astronomo gesuita Giovan Battista Riccioli nel 1651. A Messina sono stati intitolati in suo onore il Liceo Ginnasio Statale Francesco Maurolico e la piazza antistante al tribunale della città. Attualmente è sepolto nella chiesa di S.Giovanni di Malta e dei martiri Placido e compagni sita accanto alla Villa Mazzini di Messina. Le sue opere principali furono Quadrati fabrica et eius usus, Cosmographia, Photismi de lumine ed umbra ad perspectivam et radiorum incidentiam facientes e Problemata mechanica cum appendice et ad magnetem et ad pixidem nauticam pertinentiam.

Le varie specie di funghi porcini dell'Etna


Sull'Etna il fungo porcino è un ortaggio molto diffuso e questo spesso ad insaputa degli stessi abitanti del luogo. Di esso sono presenti varie specie, in particolar modo appartenenti alla famiglia delle Boletaceae, tipologia che si caratterizza per avere un carpoforo carnoso con imenio con tubuli e pori e della quale alcune sottospecie sono commestibili ed altre tossiche. La prima sottospecie che spicca è quella nota in dialetto come funcia purcina o funci fimmineddi, poi seguono il Boletus aedulis, detto anche testa di fago, il quale nasce e cresce in cenosi a leccio e a betulla presso le latifoglie ed il pino laricio e precisamente nelle zone del Rifugio Citelli, vicino Milo, e Tarderia, vicino Pedara, il Boletus aereus, detto anche porcino nero o lardaru, rinvenuto a Zafferana Etnea, Milo, S.Alfio, precisamente nei boschi della Cerrita, chiamati così in quanto boschi misti a cerro e roverella, e nei versanti nord-ovest e sud-ovest del Parco dell'Etna. Nei castagneti del versante sud del vulcano, precisamente tra Milo, il Bosco del Flascio e Milia si trovano il Boletus fragrans Vittadini, detto anche ebreo, di castagna e di pomo, specie molto termofila commestibile, ed il Boletus impolitus fragrans, detto anche d'olio per il colore olivastro. Infine da annotare le due specie ritenute da alcuni come le più velenose ed anche mortali, ovvero Amanita phalloides ed Amanita verna

domenica 18 settembre 2016

Analisi di antichi documenti in dialetto siculo


Nello studio di diversi testi sia poetici che prosastici siciliani, come canzuni d'amuri e altre varie leggende popolari, si notano diversi termini molto importanti per quanto riguarda l'evoluzione del dialetto siculo. Nelle cosiddette canzuni d'amuri si notano l'aggettivo brunetta tipico delle province nord-orientali dell'isola ed il passaggio, nel sistema dei pronomi allocutivi, dal voi al tu quando ci si rivolge all'amata. Nelle poesie appartenenti alla letteratura popolare, tra cui la leggenda della baronessa di Carini, in provincia di Palermo, e la bella Agatina, si trova granfa, che corrisponde al più moderno sfurtunata, poi diventato, nella zona orientale dell'isola, sfuttunata, in virtù del rafforzamento con la t al posto della r. La stessa sorte è toccata ad un termine come scurdari, al verbo alla forma imperfetta spirdiu, che significa è finito. Da notare anche sunnu, termine antico per indicare io sono, e citati, residuo del genitivo latino civitatis. Dal XV secolo in poi sono molto importanti le opere di quattro grandi poeti siciliani, ovvero Caio Caloria Ponzio, Antonio Veneziano, Giovanni Meli e Domenico Tempio. Il primo ha scritto un'ottava intitolata Osservazioni sul dialetto veneziano nella quale, anche in virtù del fatto che egli visse a Padova e a Venezia, mescola forme toscane, come nello parlare e parlar so, veneziane, come portao, donao e diftongi, e siciliane, come ti piacirà e l'altri paroli. Il secondo, monrealese, ci lasciò un'ottava di proverbi in cui si nota un pri con significato di per ed un cangia (con g al posto di c). Domenico Tempio, detto Miciu Tempiu in catanese, poeta etneo conosciuto per poesie di contenuto licenzioso, in La fattucchiera ci mostra celibri in antico siciliano, cunfirenza al sesto verso e cunfidenza all'ottavo verso e lofrii, poi diventato lofii, con significato di cattivi. Infine Giovanni Meli, il quale, nei suoi quattro componimenti più importanti ci mostra i motivi preferiti della musa siciliana, ovvero amuri, gilusia, spartenza e sdegnu. In essi notiamo ss'ucchiuzzi corrispondente a questi occhietti, strappanu tipico della zona occidentale dell'isola, dardi Cupidu per la freccia di Cupido, vidirili come forma di siciliano antico contrapposta al moderno virilli, tanticchia forma sicula occidentale che nella zona orientale diventa tannicchia, così come puru che nella zona orientale diventa macari (significato in italiano anche) e doppu con raddoppiamento della p. Tra le fiabe ed i racconti si notano Lu re e li carzarati, Lu Diotru e Cola pisci. Nella prima, composta a Palermo, si notano iju uguale sia per il siciliano occidentale che per quello orientale e la locuzione a la me casa con l'articolo che precede il pronome possessivo, a differenza del vernacolo orientale, il quale omette del tutto l'articolo. Nella seconda opera il nome dell'elefante simbolo della città di Catania è chiamato Diotru anziché Liotru come nel siciliano moderno a causa di una doppia etimologia confermata da chi afferma che il vero nome dell'elefante fosse Diodoro e non Eliodoro. Infine la nota leggenda di Colapesce, la quale mostra la provenienza del protagonista da Torre Faro, caratteristico borgo marinaro messinese, sotto il nome di farotu, natari con significato di nuotare, lu pedi d'u Sarvaturi con significato sostantivato del Forte di S. Salvatore accanto alla lanterna di Messina e ssa al posto di sta.





  

sabato 17 settembre 2016

Il Ponte dei Saraceni tra Adrano e Centuripe


Il ponte dei Saraceni è un ponte in pietra costruito nel IX sec. che collega i comuni di Adrano (Ct) e Centuripe (En) e sovrasta il fiume Simeto. Malgrado sia stato denominato in questo modo, sembra che sia stato costruito durante l'epoca della dominazione romana. Esso è sito nella contrada denominata Salto del pecoraio, in onore ad un'antica leggenda secondo la quale un pastore innamorato saltava dall'una all'altra sponda per recarsi dalla sua amata. Nelle vicinanze si trova un'altra contrada, denominata Del Mendolito, nella quale si trova l'area della più estesa città ellenica della Sicilia, la Città Sicula del Mendolito, risalente al IX-V sec. a. C.. Di essa è stata individuata la cinta muraria e messa in luce la Porta Sud. Altri ritrovamenti archeologici hanno portato alla conclusione che nel luogo dove oggi sorge il ponte, già in età neolitica, poteva esistere una passerella in legno costruita per esigenze di commercio e scambi tra le città sorte delle vie del Simeto. In epoca romana si ritenne opportuno sostituire questo vecchio passaggio con una solida struttura architettonica in pietra. Nacque così una delle viae frumentariae che servivano a trasportare il frumento dall'interno della Sicilia orientale ai porti marittimi della costa ionica. Così il ponte diventava parte di un'antica strada che dalla Sicilia nord-orientale e lungo il corso dei fiumi Alcantara e Simeto portava alla piana di Catania con diramazioni per Regalbuto, Troina, Agira, Centuripe, Adrano (che ai tempi si chiamava Adernò), Paternò, Catania e Lentini. Insieme ai dongioni di città come Adrano e Paternò esso assicurava anche un controllo militare di tutta la zona. Dopo un crollo avvenuto a causa di una piena del Simeto gli Arabi lo ricostruirono e curarono gli effetti cromatici alternando pietre chiare e pietre scure nelle campate degli archi. Durante la dominazione normanna esso fece parte di un importante asse viario che collegava la città di Troina, prima capitale del regno di Ruggero I di Altavilla, con Catania. Da questo periodo in poi, fino al XVIII sec., il ponte ed il territorio limitrofo facevano parte di vari feudi, tra i quali quello del Duca di Carcaci. Il terremoto del 1693 causò molti danni e portò al crollo dell'ultima arcata verso levante, lasciando anche parecchio malandati l'arcata principale e l'altra piccola arcata ad ogiva a fianco della maggiore. In conseguenza di ciò, nel corso del '700, avvennero lavori di restauro e riparazione e fino alla fine del secolo il ponte rappresentò l'unica viabilità esistente per andare a Catania. Successivamente perse importanza e fu ridotto ad un semplice sentiero, complici anche la costruzione del ponte-acquedotto di Biscari nel Guado della Carruba e la nascita di nuove vie di comunicazione. Attualmente si conserva solo l'arcata maggiore centrale, in quanto nel 1948 un'alluvione distrusse la altre che comunque in seguito furono ricostruite. Un particolarità che rende unico il paesaggio sono le forre laviche, strutture basaltiche dovute a colate laviche pre-etnee scavate dall'azione erosiva del Simeto. Dall'anno 2000 il sito in cui sorge il ponte è all'interno del Sito di interesse comunitario denominato Forre laviche del Simeto, mentre il 22 gennaio 2015 il quotidiano La Repubblica lo ha designato come uno dei trenta ponti più belli d'Italia.

venerdì 16 settembre 2016

Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro: unico esempio di sonetto di Scuola Siciliana pervenuto in dialetto siculo


Stefano Protonotaro da Messina è stato uno scrittore italiano, di ignota data di nascita e appartenente alla Scuola poetica siciliana. Molte fonti affermano che esso sia identificabile con uno Stefano da Messina che tradusse dal greco al latino e dedicò due trattati arabi di astronomia a Manfredi, figlio di Federico II, ma quest'ipotesi non è stata ancora del tutto accertata. Nacque a Messina quando la Sicilia era ancora parte del Regno di Sicilia, lo Stato sovrano istituito nel 1130 con la fusione della Contea di Sicilia e del Ducato di Puglia. Il suo componimento più conosciuto è Pir meu cori alligrari ed è, tra tutti i componimenti appartenenti alla Scuola Siciliana, l'unico ad esserci pervenuto interamente in lingua siciliana, in quanto gli altri componimenti di essa, a causa della gran diffusione che ebbero nel resto della penisola, ci sono pervenuti in codici linguistici toscani, come quello Vaticano latino e quello Laurenziano. Colui che ha reperito questo componimento fu Giovanni Maria Barbieri, grande filologo del '500 il quale la copiò da un codice che in seguito è andato perduto. In esso quindi abbiamo un grande esempio di siciliano illustre, ovvero quel linguaggio che i seguaci colti di Federico elaborarono attraverso il raffinamento della lingua parlata e comune, rendendo così più regolari certe forme ed introducendo il lessico tecnico della poesia d'amore provenzale. Qui, quando un amore, tema principale del componimento, non viene ricambiato, la sopportazione del dolore porta a non perdere la speranza e a conquistare la gloria. La canzone è quindi formata da un metro unissonans, con rime uguali ad ogni stanza al quale segue, secondo il modo provenzale, una tornada o congedo di struttura uguale alla sirma. I versi utilizzati sono il settenario, con l'ultimo accento sulla sesta sillaba, e l'endecasillabo, con accento sulla decima sillaba. Da notare come, all'interno della Scuola Siciliana, fu per la prima volta utilizzato il sonetto, forma poetica adatta ad esprimere un motivo grazie alla sua tipica brevità. Nel vocalismo della prima stanza della canzone si nota la base siciliana-comune. Il siciliano ha un sistema a cinque vocali in sillaba tonica e, a differenza del toscano, l'insieme delle vocali in sillaba accentata non presenta e ed o chiuse ed aperte, ma e aperta in luogo della e latina lunga, ed o aperta in caso di o latina breve ed u in caso di o latina lunga. Così quindi quasi tutto ciò che conosciamo della produzione della Scuola siciliana ci si presenta sotto una forma diversa da quella caratteristica di questa canzone.

Pir meu cori alligrari, 
chi multu longiamenti 
senza alligranza e joi d’amuri è statu, 
mi ritornu in cantari, 
5ca forsi longiamenti 
ca forsi levimenti 
da dimuranza turniria in usatu 
di lu troppu taciri; 
e quandu l’omu ha rasuni di diri, 
10ben di’ cantari e mustrari alligranza, 
ca senza dimustranza 
joi siria sempri di pocu valuri: 
dunca ben di’ cantar onni amaduri. 
E si pir ben amari 
15cantau jujusamenti 
omu chi avissi in alcun tempu amatu, 
ben lu diviria fari 
plui dilittusamenti 
eu, chi son di tal donna inamuratu, 
20dundi è dulci placiri, 
preju e valenza e jujusu pariri 
e di billizzi cutant’abundanza 
chi illu m’è pir simblanza, 
quandu eu la guardu, sintir la dulzuri 
25chi fa la tigra in illu miraturi; 
chi si vidi livari 
multu crudilimenti 
sua nuritura, chi ill’ha nutricatu: 
e sì bonu li pari 
30mirarsi dulcimenti 
dintru unu speclu chi li esti amustratu, 
chi l’ublïa siguiri. 
Cusì m’è dulci mia donna vidiri: 
ca ’n lei guardandu me[t]tu in ublïanza 
35tutta autra mia intindanza, 
sì chi istanti mi feri sou amuri 
d’un colpu chi inavanza tutisuri. 
Di chi eu putia sanari 
multu leg[g]eramenti, 
40sulu chi fussi a la mia donna a gratu 
meu sirviri e pinari; 
m’eu duttu fortimenti 
chi, quandu si rimembra di sou statu, 
nu•lli dia displaciri. 
45Ma si quistu putissi adiviniri, 
ch’Amori la ferissi di la lanza 
che mi fer’e mi lanza, 
ben crederia guarir di mei doluri, 
ca sintiramu engualimenti arduri. 
50Purrïami laudari 
d’Amori bonamenti 
com’omu da lui beni ammiritatu; 
ma beni è da blasmari 
Amur virasimenti 
55quandu illu dà favur da l’unu latu 
e l’autru fa languiri: 
chi si l’amanti nun sa suffiriri, 
disia d’amari e perdi sua speranza. 
Ma eu suf[f]ru in usanza, 
60ca ho vistu adess’a bon suffirituri 
vinciri prova et aquistari unuri. 
E si pir suffiriri 
ni per amar lïalmenti e timiri 
omu acquistau d’amur gran beninanza, 
65dig[i]u avir confurtanza 
eu, chi amu e timu e servi[vi] a tutturi 
cilatamenti plu[i] chi autru amaduri


All'interno di questo componimento si nota un modo di parlare d'amore cervellotico, intellettualistico ed autoreferenziale. Dal punto di vista linguistico troviamo diversi francesismi e provenzalismi nei quali è palese l'influenza dei trovatori e dei trovieri. I termini di origine in langue d'oil sono tutte le parole che terminano in -anza ed in -aggio, con la differenza che, mentre quest'ultimo suffisso è a tutti gli effetti francese, -anza ed -enza possono essere anche di origine latina. I provenzalismi si notano in termini come dolciore e miraturi, il quale si alterna con il francesismo speclu, entrambi significanti specchio, per il suffisso in -ore. Questo componimento non è musicato in quanto la poesia della Scuola Siciliana si caratterizza per essere una poesia di alto livello intellettuale, mentre si crea una forte antitesi tra metro e sintassi ed un forte legame sintattico tra una stanza e l'altra. Da un punto di vista lessicale sono da sottolineare il verbo fare, usato per rendere più astratti i concetti, placiri, verbo che viene collegato all'idea di bellezza ed in cui il soggetto è colui che viene amato, pregio, indicante una qualità relativa al valore ed intellettuale di una persona, illu, termine traducibile con l'attuale siciliano chiddu, che vuole dire lui con un significato più profondo rispetto al solito, pariri, il quale vuole dire sembrare, tutisuri, equivalente di a tutte le ore, metto in oblio, frase che rende il discorso più astratto grazie alla sostituzione del normale verbo con ausiliare ed un sostantivo deverbale. Sono presenti anche forme come putria, vurrìa, avria, le quali mostrano i primi tentativi di differenziazione dei futuri e dei condizionali che ha poi portato all'utilizzo di molti termini del linguaggio attuale, mentre si nota come alcune parole alternano la forma latina con quella del volgare parlato, ad esempio monstrai (forma latina) alternata a mostrai (forma volgare).











sabato 10 settembre 2016

Il vino Etna Bianco Superiore attraverso la conoscenza delle ottime proprietà del vitigno Carricante




Oggi, sabato 10 settembre alle ore 10,30 durante un convegno tecnico svoltosi al Centro Servizi di Milo nell'ambito della rassegna enogastronomica Vinimilo, abbiamo scoperto la bontà del vino Etna Bianco Superiore prodotto all'interno del vitigno Carricante. Esso è un vino bianco esclusivamente autoctono, in quanto viene prodotto, da circa cinquecento anni, solo nel territorio compreso tra Milo ed il confinante comune di Zafferana Etnea, in particolar modo nella splendida contrada agreste di Caselle posta ad 800 metri di altezza, grazie ad un particolare tipo di uva, detta Carricante. L'essere un vino totalmente autoctono lo porta anche ad avere una appellation comunale identificata col territorio di Milo. A tutto ciò contribuiscono le molteplici risorse del territorio vulcanico etneo, come il particolare suolo vulcanico, in alcuni tratti basaltico, il livello di altitudine, il quale rimanda al concetto di verticalità del vulcano esposto durante la conferenza stampa di presentazione, l'esposizione verso il mare ed infine l'azione dei piccoli frammenti solidi di lava, comunemente chiamati lapilli. Nell'ambito della coltivazione è molto importante l'intervento dell'uomo per una modifica del territorio alla quale contribuisce anche il concetto di verticalità. Il terreno sabbioso viene curato giorno dopo giorno e, dato il suo continuo riversamento verso il mare, porta alla costruzione di muretti a scala, solitamente a tre strati, i quali lo mantengono in condizioni sempre ottimali. Per la crescita in altezza degli alberi sono determinanti la funzione dei pali di castagno, i quali fanno quasi da tutori, la profondità, che con il tempo diventa via via sempre più lunga, della radice, grazie anche al fondamentale apporto delle acque piovane, e la manodopera. Per la conoscenza tecnica e scientifica della tipologia di vino è stato fondamentale l'apporto di Alfredo Maria Mazzei, fondatore nel 1881 della Scuola di viticoltura ed enologia di Catania il quale, insieme ad Antonino Zappalà, fece diverse ricerche con analisi chimiche, anche riguardo ad un'eventuale diffusione del vitigno del Carricante al di fuori dei territori di Milo e Zafferana Etnea. Queste ricerche portarono alla conclusione che, a partire dal momento della vendemmia, deve trascorrere un periodo che va da un anno e mezzo circa fino anche ai 3 o 4 anni affinché il prodotto coltivato trovi un equilibrio chimico-organolettico e venga così diminuito il livello di acidità iniziale. Quest'ultima cosa avviene soprattutto grazie a fenomeni fisici e biochimici come le precipitazioni tartariche e le fermentazioni malolattiche le quali lo portano ad essere fragrante al momento del consumo. Una menzione particolare nell'ambito della coltivazione merita la tecnica dell'impianto del franco di piede la quale serve a garantire una corretta selezione dei vigneti e porta ad un periodo di durata di circa quindici anni per una perfetta riuscita del prodotto finale.



La caratteristica che come abbiamo già accennato rende unico il vino Etna Bianco Superiore è la sua acidità. Essa viene bilanciata grazie all'innesto, durante la coltivazione, dell'uva Carricante con almeno altre due tipologie, ovvero la Minnella e la Vespaiola le quali, oltre a moderare l'effetto acido nel gusto, contribuiscono anche a non rendere il vino molle e a renderlo così allo stesso tempo saporito e gustoso. Come in tanti altri prodotti agricoli, il livello di acidità viene determinato anche dalla condizione di salinità del terreno e dal livello di ph, i quali lo rendono un vino a tutti gli effetti neutro da un punto di vista aromatico e che trae la propria forza da chi lo produce. Tutte queste credenziali portano alla conclusione che esso si sposa solo ed esclusivamente con il territorio etneo, come hanno dimostrato delle successive ricerche avvenute nel corso del XX secolo, le quali hanno stabilito che è molto difficile esportare questo tipo di vino al di fuori del proprio territorio di nascita. Nel corso degli anni la quantità di terreno disponibile all'interno del territorio si è andata però anche riducendo in quanto buona parte di verde ha lasciato il posto a diverse costruzioni e quindi al cemento, ma ciò non ha fermato l'espandersi dell'ampiezza del mercato che ha portato il vino ad essere venduto ad 1,80 euro al chilo, tutto questo anche perché nel territorio vulcanico non vi sono regole di produzione e le caratteristiche del suolo continuano, di anno in anno, ad essere del tutto ottimali. Un grande cambiamento si è avuto, nel corso degli anni, anche grazie al fatto che il vino è passato dall'essere fonte di sostentamento delle famiglie residenti nel territorio al rappresentare una grande fonte di investimento per le aziende. Nell'ambito della propria vendita esso viene sempre prodotto con uniformità di tempo e produzione e l'azione dei produttori e degli intermediari porta anche ad un ottimo livello di comunicazione in quanto i clienti vengono anche in un certo senso fidelizzati. Ad una corretta e perfetta diffusione del prodotto concorrono anche l'attivazione di luoghi che tramandano la tradizione del vino dell'Etna, la scelta delle risorse umane, le quali vanno di anno in anno aumentando, la costruzione di una mappa per i percorsi vinicoli all'interno degli agriturismi e delle aziende, la quale porta sia ad un corretto comportamento di chi viene da fuori che ad un precisa definizione delle dimensioni del territorio, ed infine il corretto imbottigliamento del vino, il quale da una garanzia in più per il prodotto in se e stimola chiunque utilizzi il marchio ad assicurarne la qualità.














venerdì 9 settembre 2016

Va vacci, nun siari, veni cca a mattri, verbi con suffisso -ulu: quattro terminologie della sintassi siciliana


Nella storia dell'evoluzione del dialetto siciliano, più precisamente nell'ambito della sintassi, si incontrano quattro terminologie molto frequenti nel linguaggio confidenziale: va vacci, nun siari, veni cca a mattri ed i verbi con la forma imperativa avente il suffisso in -ulu. Nun siari riguarda la costruzione di un verbo di moto, il quale si può trovare nella funzione indicativa, congiuntiva o imperativa, e regge l'infinito con la preposizione a. A Catania gli esempi di costruzione imperativa possono anche non avere questa particella e sono va pigghia e va pigghiala. Questa occasionale mancanza si spiega con il fatto che, quando ci sono più preposizioni unite tra loro con lo stesso soggetto e che si succedono l'una e l'altra, si utilizza la copula e, e questa giustapposizione è molto comune con due imperativi. Nel caso di Catania la particella a viene incorporata nel verbo e in alcuni casi provoca il raddoppiamento della consonante iniziale del verbo successivo. Quando è presente la copulazione con la particella a, la quale traduce il latino ac, i soggetti dei due verbi sono solo apparentemente della stessa persona ma in realtà non lo sono, e manca l'azione rapida ed emotiva, malgrado la presenza dell'imperativo. Per i siciliani è una regola unire i pronomi clitici al secondo verbo come nel caso di vallo a pigliare equivalente a lo vai a pigliare. Infine c'è da fare una precisazione, ovvero che il verbo essere è tra quei verbi che ricorrono al congiuntivo per esprimere un comando, soprattutto quando si tratta di una forma negativa.
Le forme sii e siate del verbo essere sono forme del congiuntivo esattamente quando indica volontà, ma questo modo manca nella seconda persona singolare dell'imperativo negativo. Così nel siciliano abbiamo la funzione di infinito per l'imperativo negativo accanto a quella più ovvia di esso, ovvero nun siari ostinatu utilizzata quanto nun essiri ostinatu. La voce verbale siari è una forma mista in quanto è un infinito quando ha la desinenza -re ed un congiuntivo quando ha la radice sia-, la quale unita alla negazione nun esprime il modus prohibitivus latino. Sempre a Catania si trovano le due forme nun siari e nun essiri, quest'ultima avente la variante del basso vernacolo nun gnessiri, la quale, rispetto alla prima che esprime cortesia, esprime invece comando.
Il costrutto veni cc a mattri è una di quelle locuzioni abbreviate e ridotte ad un solo sostantivo, il che contrasta con la definizione di preposizione che ci viene data di solito dalla grammatica logica, ossia il fatto che essa, per essere definita preposizione, deve avere come proprio centro un verbo di modo finito. Il legame affettivo che la donna siciliana ha con il proprio figlio viene messo in rilievo dal sostantivo indicante il grado di parentela che essa ha rispetto al figlio. Tradotto letteralmente significa Io, come madre, io, che sono la madre, ti dico: vieni qua, e questo riguarda anche gli altri tipi di parenti, il padre, il nonno, lo zio ed anche il fratello maggiore, fino ad arrivare anche al rapporto tra capo operaio e garzone. La locuzione viene quindi utilizzata quando l'interlocutore è di grado inferiore rispetto a colui che parla, sia nell'ambito della parentela che in quello lavorativo, e l'indicativo nella preposizione completa iu ti vogghiu beni u mastru la rende una preposizione relativa-appositiva con eventuale ellissi del verbo iu u mastru.
Infine riguardo ai verbi alla forma imperativa nel dialetto siciliano si nota per prima cosa la desinenza in -u a causa dell'articolo che influenza, sotto forma di enclitica, il verbo al quale si accorda, ovviamente alla seconda persona singolare. Al momento della composizione l'enclitica ha una tonicità tale che, al  momento della pronuncia, si unisce alla a postonica della parola alla quale si accorda, formando così una sillaba sola. Per quanto riguarda il plurale la desinenza è in -i, mentre per il femminile la desinenza rimane -a






mercoledì 7 settembre 2016

L'origine del toponimo Capo Peloro


Il nome che identifica la punta dell'estremo nord-est della Sicilia, Capo Peloro, ha un'etimologia particolare che negli anni passati ha diviso, in base alla loro opinione, storici, archeologi e geologi. Il nome deriva dal greco e, tradotto letteralmente in italiano, significa prodigio. Esso identifica quindi qualcosa di maestoso, gigantesco, addirittura mostruoso, e rimanda all'idea di rapido movimento e mutevolezza. Il toponimo, riferito al luogo che tutti conosciamo, compare nelle Metamorfosi di Ovidio, ne La guerra del Peloponneso di Tucidide e nell'Eneide di Virgilio. Una volta applicato al contesto geografico dello Stretto di Messina, l'equivalente italiano della parola greca è abbastanza pertinente, sia dal punto di vista storico che da quello geologico. Dal punto di vista storico, secondo anche le leggenda ed il mito, esso è stato popolato da esseri come divinità guerriere, eroi eccezionali, creature gigantesche e mostri marini, mentre dal punto di vista geologico la zona è spesso di fenomeni geofisici, un tempo considerati mirabilia, come i movimenti delle faglie, i quali spesso sono all'origine di eventi come forti attività vulcaniche o terremoti, o anche ai refoli, i venti tipici del luogo di cui abbiamo parlato tempo addietro.





I miti e le leggende che hanno sede nell'area dello Stretto di Messina hanno tutte una connotazione equivalente al significato della parola, ma quelli che gli storici identificano come i "fondatori" del toponimo sono il gigante Peloro e la ninfa Pelorias. Peloro, oltre ad essere un gigante, era anche il pilota della nave di Annibale, il quale, ritenendosi ingannato in quanto proveniente da Occidente e viaggiando verso lo Stretto, non vide alcun passaggio, poiché le coste della Calabria e della Sicilia apparivano unite, e fece uccidere il suo pilota. Poco dopo però si accorse che il passaggio in realtà esisteva, così come aveva assicurato, fino al momento della sua morte, Peloro. Così, dopo questo fatto, Annibale, per immortalare il suo pilota ingiustamente ucciso gli intitolò l'estremo capo nord-orientale dell'isola. Una statua raffigurante egli vi si scorgeva sul mare e serviva da segnale per i naviganti. Quest'origine del toponimo è stata però immediatamente messa in discussione in quanto trecento anni prima della venuta di Annibale in Sicilia era già diffuso e si praticava il culto della dea e ninfa Pelorias.
Essa era una ninfa che abitava tra le paludi della zona, per questo chiamata anche Signora delle paludi, e la quale, secondo la tradizione mitica, sarebbe stata anche una dea madre, dall'aspetto gigantesco, posta a difesa del territorio e sostenuta, nella sua impresa, dal guerriero Pheraimon, uno dei sette figli di Eolo. Alcuni storici la ritengono anche come la personificazione di Gaia Pelore, la Grande Madre Terra dei Greci, stessa divinità che diede a Crono la falce, conosciuta con il nome di zankle da cui ho poi preso il nome la città di Messana Zancle, ovvero Messina, con la quale egli evirò il proprio padre. Essa appariva sia come incarnazione del principio più inumano e selvaggio della natura che come una ninfa bella ed amabile, ma ciò che rende davvero importante la sua figura è la raffigurazione di essa nelle monete coniate dalla zecca di Messana Zancle nel periodo tra il 461 ed il 288 a. C.. In esse la ninfa è rivolta verso sinistra, con i capelli raccolti sulla nuca e trattenuti da una ghirlanda di foglie di canna con il rosa a simboleggiare la zona paludosa nella quale essa abitava. Nel rovescio era raffigurato Pheraimon armato di scudo e lancia nell'atto di incedere verso sinistra. In altre monete essa era raffigurata anche con delfini, conchiglie e mitili, e soprattutto in una di queste era presente un quadrato di linee incrociate il quale, secondo alcuni archeologi, raffigurava il tempio segreto della dea nascosto tra i canneti dei pantani.


Un elemento che identifica in modo particolare la ninfa Pelorias è una conchiglia detta Pinna nobilis, molto diffusa nell'area dello Stretto e la quale, per dimensioni, la più grande del Mediterraneo. L'archeologo roveretano di nascita ma siracusano d'adozione Paolo Orsi ritrovò nella penisola di S.Raneri una materiale di ceramiche recante la sua raffigurazione. Essa serviva soprattutto per tessere un pregiato tipo di tela di nome bisso, molto apprezzato dai Fenici e dai Greci. La ninfa portava su di se una veste di bisso risplendente come il sole.







lunedì 5 settembre 2016

I prodotti agroalimentari in primo piano alla Vinimilo 2016


Nell'ambito della trentaseiesima edizione della Vinimilo, per le strade del paese, sono in mostra diversi prodotti agroalimentari siculi, unici nella loro originalità, nella loro genuinità e nella loro produzione a tutti gli effetti artigianale, come affermato dalla maggior parte dei produttori. Domenica 4 settembre, alle ore 18,30, abbiamo fatto un giro ed abbiamo conosciuto qualcuno di essi scambiando quattro chiacchiere con i produttori, provenienti da diverse parti dell'isola, oltre che dalle zone limitrofe al paese.


 
Antonino Navarria dell'azienda agricola S.Antonio Abate di Castel di Iudica, piccolo comune della Città Metropolitana di Catania, ha parlato della produzione dei formaggi attraverso il latte pecorino ed il latte vaccina entrambi in allevamento biologico, il quale non porta all'aggiunta di additivi e all'unione di diversi pascoli. Con latte pecorino sono prodotti il formaggio con pistacchio o pepe nero, la ricotta, la tricotta, ovvero la ricotta infornata, ed il pepato stagionato, il quale ha un sapore più forte rispetto al pepato morbido. Tramite il latte vaccina vengono prodotti la scamorza, la provola e la mozzarella, attraverso anche il processo di fusione che li porta ad essere filati. 
                                                                         

Giacomo Gatì dell'azienda agricola Montalbo di Campobello di Licata in provincia di Agrigento ha il suo cavallo di battaglia nella produzione dei formaggi di capra girgentana, una specie, come ha sottolineato, in pericolo d'estinzione, e la quale viene rigorosamente allevata all'aperto. In questa produzione si annoverano anche i formaggi morbidi e quelli cremosi con il caglio vegetale, fondamentale per l'aggiunta di essenze come il carciofo ed il fico.
                                          
                                         


Gabriele Arcodia, a sinistra nella foto, dell'azienda agricola La Fiumara di Mirto, comune appartenente alla Città Metropolitana di Messina, ha parlato della produzione del salame del Suino nero dei Nebrodi, una tipologia isolana che negli ultimi anni ha ottenuto molto credito a livello nazionale e che esprime un'intensità aromatica particolare. Esso viene allevato rigorosamente nelle zone adibite al pascolo, allo stato semibrado e contiene grassi insaturi ricchi di Omega 3. 
                                         



                                         
L'azienda agricola Isgrò di Furnari, comune appartenente anch'esso alla Città Metropolitana di Messina, con a capo Domenico Isgrò (nella prima foto) tratta in primis prodotti appartenenti al lattiero caseario tradizionale come la ricotta infornata, il pecorino fresco e la provola dei Nebrodi, la quale viene prodotta con la pasta fusa messa nel siero caldo e fonde fino a filare. Ma il cavallo di battaglia nella produzione di quest'azienda agricola è il Maiorchino (nella seconda foto), formaggio molto particolare che si pensa abbia fatto la sua comparsa in Sicilia nel '600. La pasta di questo formaggio è dura, il suo contenuto è a base di latte di pecora, il quale coagula a 39 gradi con caglio in pasta d'agnello o capretto. Dopo la rottura della cagliata viene riscaldato fino a circa 60 gradi, la cagliata viene successivamente raccolta a mano in una massa sferica, viene messa in una fascera detta garbua e poggiata su un piano di legno mastrello. Nel frattempo avviene un lavoro di bucherellamento della pasta per favorire lo scarico del siero, e successivamente il tutto viene posto su dei ripiani di legno di noce, il che precede il periodo della salatura, che varia da venti a trenta giorni. Nei primi due mesi il formaggio viene pulito, strofinato e rivoltato, mentre dal terzo mese fino all'ottavo viene trattato con olio d'oliva. Dopodiché la stagionatura è completa, la pasta è di colore giallo paglierino, la crosta di colore giallo ambrato, la consistenza è compatta ed il sapore piccante, ma delicato.  


                                        


                                          
Vincenzo Raciti, presidente di Etnavà, l'altro presidio che insieme a Slow Food partecipa alla rassegna, e a capo dell'azienda agricola Lapilli dell'Etna, ci ha parlato della produzione di marmellate e di confetture in agricoltura biologica come agrumeti. Un'importanza particolare va data anche al sistema biodinamico, il quale si caratterizza per la non aggiunta di additivi e per la chiusura del ciclo produttivo all'interno dell'azienda. Nello stand della Strada del Vino dell'Etna abbiamo notato diverse tipologie di vino, in tutto 70, tra le quali spiccano maggiormente il Carricante, il Rampante, l'Etna Bianco Doc, il Rosato del Conte, il Nerello del Conte, il Quantico, l'Etna Rosso ed il Barbazzale. Esse vengono offerte in degustazione e vengono prodotte, nell'ambito della rassegna, da 30 di diverse aziende, con la partecipazione di sommelier della Fisar e dell'Onav e di quattro produttori.   



Infine va dedicato un particolare spazio ai produttori del cibo strada, il quale va, di anno in anno, ad acquisire sempre più credito. Salvatore Saraniti della Cooperativa del Golfo, con sede legale a Catania e punto vendita a Portopalo ci ha parlato del pesce fresco lavato, pulito ed offerto direttamente alla clientela, e della Masculina da magghia. Questo pesce viene catturato con l'imprigionamento della propria testa nelle maglie della rete, da cui deriva il nome magghia, ed in seguito avviene un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso. Nella tecnica di salagione questo processo assume un'importanza davvero rilevante e ad essa si aggiunge l'utilizzo di vasetti di vetro ed orci di terracotta. Salvatore Ciulla di Ominia agricolae ci ha parlato del Granancino, arancino che al posto del riso contiene il farro lungo, uno dei quattro grani antichi della Sicilia, i quali vengono lavorati con la macinazione a pietra e con una farina meno raffinata e trattata chimicamente rispetto a quella prodotta con grano moderno. Tutto questo porta ad un mantenimento maggiore delle proprietà nutrizionali presenti nel chicco e ad un maggiore equilibrio tra la presenza di amido e quella di glutine, il che a sua volta rende il prodotti più digeribile.                                         














                                       
                                         


sabato 3 settembre 2016

Il borgo di Brolo


Brolo, detto Brolu in siciliano, è un comune italiano di 5863 abitanti appartenente alla Città Metropolitana di Messina. Esso è situato lungo la costa tirrenica a circa 90 chilometri da Messina e circa 145 chilometri da Palermo. Il territorio comunale, che ha un'estensione di 7,66 chilometri quadri, è bagnato a nord dal mar Tirreno e a sud è circondato dalla catena montuosa dei Nebrodi. Questa zona geografica è formata da una fascia pianeggiante compresa tra la costa e l'autostrada A20 Messina-Palermo che pentra verso l'interno in corrispondenza dei tre corsi d'aqua principali, ovvero la fiumara di S.Angelo di Brolo, il torrente Iannello, da cui prende nome l'omonimo quartiere, e la fiumara di Brolo. Questa fascia è racchiusa da una zona collinare che, partendo dalla pianura, si eleva gradualmente sino a confluire nella catena nebroidea. I confini amministrativi sono a nord con in il mar Tirreno, ad ovest con il comune di Naso, a sud con il comune di Ficarra e ad est con i comuni di Piraino e S.Angelo di Brolo. Il territorio comunale, sviluppato attorno al centro urbano, è formato anche da una serie di frazioni e località importanti sia per l'incremento demografico avuto che per la rivalutazione della loro posizione all'interno del territorio, in relazione alla crescita in termini urbanistici di esso. La frazione più importante è quella di Piana, la quale pochi anni fa era separata dal centro urbano, ma che, conseguentemente allo sviluppo dello stesso, che ha scelto come direttrice di sviluppo urbanistico la via Trento-Piana, è venuta a formare con esso un unico agglomerato urbano. Lo sviluppo edilizio di Brolo avviene, a differenza degli altri comuni ubicati nella costa tirrenica, nella zona pedemontana. Già nel 1872 Piana era, insieme alle località Ferrara, Fosso del Gelso, Cordile, Bosco e Mendoleri, una delle cinque sezioni censuarie di Brolo. Altre frazioni e località sono site lungo la Strada Provinciale Brolo-Lacco e sono Parrazzà, Iannello, Lacco, Sellica e Casette. A Parrazzà sono stati realizzati diversi complessi edilizi, mentre vicino alla frazione di Iannello, situata a 290 metri sul livello del mare inzona collinare, si ammirano scorci di paesaggi agresti. Nel percorso da Iannello a Lacco si trovano ulivi, la qual coltura rappresenta la componente predominante del paesaggio. La frazione di Lacco, in collina a 500 sul livello del mare, è divisa trai comuni di Brolo e Piraino, mentre Sellica e Casette, a 600-700 metri sul livello del mare, rappresentano la parte più interna del comune e confinano con i comuni di S.Angelo di Brolo e Ficarra. Percorrendo la Strada Statale Settentrionale Sicula 113 in direzione Gliaca di Piraino si arriva nelle seguenti località: la contrada Scinà, la contrada Lago ed il quartiere S.Anna. Queste ultime due si trovano a ridosso del torrente S.Angelo. In quest'ultima area sono presenti spazi destinati all'agricoltura, degli agrumi in particolare, con il limone Citrus limon. Di esso la coltivazione specifica predominante è il Femminello Comune da cui si è originata, a causa delle caratteristiche del clima, la cultivar del Femminello di Brolo, detto U Cucuzzaru. Le piante di ulivo, oltre a soddisfare il bisogno di olio, fungono anche da alberi frangivento ed in passato servivano a delimitare i confini di proprietà, Nei terreni ad ovest, precisamente nella vecchia contrada Filanda, oggi chiamata Malpertuso, si trovano alberi da frutto e appezzamenti di terreno destinati ad orti, e qui gli alberi d'ulivo proteggono gli agrumi e la funzione di frangivento è assolta dai cipressi. L'origine del toponimo deriva dal latino Brolium, che significa giardino. Dalla ricostruzione della Tabula Peutingeriana si possono ricavare alcune notizie riguardanti il territorio di Brolo. Da questa antica cartina, che descrive la viabilità della Sicilia nel IV sec., si nota come la Via Valeria, strada principale, insieme alla Consolare Pompea, dell'isola, collegava lo Stretto di Messina ed il Capo Lilibeo. Il percorso dell'attuale SS 113 ricalca quasi del tutto quello della via Valeria, la quale era di grande importanza per gli scambi commerciali all'interno dell'isola. Ancora prima di essere un borgo di pescatori Brolo era molto probabilmente quello che Catone chiamava granaio del popolo romano. La storia di questo borgo medievale nasce e si sviluppa attorno al castello, costruito a picco sul mare, che dominava un vasto tratto della costa tirrenica, proteggendo le spiagge sottostanti dalle incursioni piratesche. In epoca normanna ed araba esso veniva chiamato Voab, ovvero Rocca marina. Questo fa capire come il villaggio era importante nel tratto di costa tra Capo d'Orlando e Capo Calavà per la sua posizione geografica. Il porto era l'unico presente in questo litorale e, come scrisse il geografo Edmiri nel 1154, veniva chiamato Marsa Daliah ed era protetto da un'iniziale costruzione adibita all'avvistamento delle navi saracene. Le fonti antiche più attendibili fanno risalire la costruzione del primo insediamento ed impianto urbanistico all'XI sec. attribuendola ai Primati di Sicilia, nobile famiglia appartenente al ceppo di Bartolomeo d'Aragona e legata alla corte di Federico II.
  


La Chiesa Madre dedicata a Maria SS. Annunziata, costruita nel 1764, è il luogo di culto di riferimento del borgo in quanto è dedicata alla santa patrona e conserva al suo interno dipinti ed affreschi di pregevole fattura. La Statua del Cristo degli Abissi viene collocata ogni anno, in occasione della Festa del Mare, sul fondale marino in direzione dello scoglio che si erge di fronte al lungomare, viene fatta riemergere e issata sullo scoglio dove resta per qualche giorno. Il Castello Medievale che sovrasta il paese è il monumento più significativo dal punto di vista soprattutto storico. Esso è raggiungibile dalle tante viuzze che tagliano il borgo ed era residenza della principessa Bianca Lancia, moglie di Federico II nel 1246 e madre di Manfredi, e sorge su un'incantevole promontorio a picco sul mare, delimitato dalle antiche mura di cinta, con i due portali di accesso, che racchiudono un parco di alberi ad alto fusto con un pozzo esagonale, il tutto sormontato da una torre che si eleva per quattro livelli e culmina in una terrazza merlata. Al secondo piano si trovano la sala di rappresentanza ed il balcone panoramico. La sua fondazione risale al X sec. d. C. ed il nucleo centrale risale al periodo normanno. In seguito esso divenne reggia alla magnifica corte di Federico II e del figlio Manfredi, Re di Sicilia nel 1258. Al balcone panoramico è legata la leggenda di Maria La Bella, figlia di Francesco I. La principessa aspettava affacciata al balcone il suo amante che sopraggiungeva dal mare. Lo spasimante, una volta raggiunta la torre, si aggrappava alle lunghe trecce dell'amata per raggiungerla in segreto. Il fratello di Maria, accortosi di quanto accadeva, tese un agguato al giovane, aspettandolo sullo scoglio antistante il Castello e ferendolo a morte. La principessa aspettò così per molto tempo invano il suo amato. Ancora oggi si dice che lo spirito innamorato della bella Maria appaia nella notte ai pescatori del luogo.